mercoledì 28 aprile 2010

Duiù spicche livornese?

A me me lo puppi (PUPPA!)
Fonte: http://www.vernacoliere.com/

Nata come una delle più appassionate frasi a invito della poetica labronica, la celebre locuzione s'impernia su quattro incalzanti monosillabi e su un bisillabo solenne sfocianti in uno splendido senario (verso di sei sillabe) che già di per sé irride e risponde a quanti pensano che il pathos livornese sia tutto tope e culi.
Dove trovereste infatti maggiore sonorità onomatopeica che in quella sinfonica scansione di labiali (m - m - p - pp) così solennemente descrittive di un ridondante ricolmar di labbra?
Si senta la seguente quartina anomala, comunemente detta imbastardita, trovata incisa con ispirata lametta su un banco del Liceo Classico "Niccolini e Guerrazzi" durante una lezione sulla poetica oraziana nei mitici anni '50:
“A me me lo puppi, bimba,fintanto che 'un si tromba”
in cui alla rimbalzante serie delle immaginifiche labiali succede una secca scarica di dentali e di sibilanti ben diversamente intese ad atto di più immediata e prosaica conclusione.
Pervenuto tuttavia nel tempo ad altra e plurifunzionale valenza, il detto ha perlopiù assunto un uso esclamativo che in risposta a qualcuno o a commento di qualche situazione testimonia o uno stato di acuta insofferenza (come può esser quella da palle piene, per esempio nell' “a me me lo puppi!” con cui l'automobilista commenta l'ennesima contravvenzione per divieto di sosta, idealmente rivolto al vigile ed ancor più alla vigilessa responsabile del fatidico foglietto sul parabrezza), o una volontà d'intrattabile diniego ("a me me lo puppi!" esclama l'alunno al professore [a czrettino capita tutti i giorni - ndLeo] che lo implora d'impararsi a memoria magari un solo verso del Poeta) o financo un intento di derisione (tipico dell' "a me me lo puppa!" rivolto dal genero alla suocera - dandole convenientemente del lei - che gli chiede d'esser portata anch'essa nella domenicale gita familiare).
Il tutto sempre e comunque con la più viva e voluta mancanza di rispetto verso l'interlocutore, non a caso invitato a compiere un atto che sarà pure una suzione del cazzo soltanto simbolica, ma sempre cazzo è.
È poi da segnalare appena, data l'ovvietà, che nell'invito al puppamento il dativo singolare "a me me...", caratteristicamente rafforzato com'è d'uso nel linguaggio livornese, può tranquillamente mutare nel plurale "a noi ce...".

"A noi ce lo puppi!"
proclamò infatti il Consiglio Comunale di Livorno nello storico ordine del giorno col quale nella primavera del 1989 rispose a quanti - autorità milanesi in testa - avevano trattato di somma inciviltà i livornesi tutti per aver qualche tifoso dell'Enichem Livorno scaracchiato su qualche giocatore della Philips Milano al termine della famigerata finale in cui la Philips ci rubò lo scudetto di pallacanestro e volevano anche picchià, que' popò di ladri! (si veda in proposito il Vernacoliere del giugno 1989, pag. 4).
Ed un'altra ovvia segnalazione riguarda il fatto che, seppure la proverbiale esclamazione qui esaminata non paia adattarsi ad essere pronunciata da una donna, a Livorno le donne questo ed altro posson dire, quando anche loro hanno le palle gonfie per davvero.Di un certo interesse anche storiografico risulta infine la presunta origine del detto, probabilmente riconducibile, in una primitiva e più semplice forma, al periodo risorgimentale livornese, e più precisamente all'episodio che causò l'arresto, e la successiva fucilazione, del patriota Enrico Bartelloni, eroico operaio che neppure con la lingua volle chinar la testa davanti all'austriaco oppressore.

È noto infatti come il prode popolano, dopo aver attivamente partecipato sulle mura di S. Marco e sul campanile di S. Giuseppe alla vana resistenza armata di Livorno del 10 e 11 maggio 1849 contro le soverchianti truppe austriache accorse a restaurare il granduca lorenese Leopoldo II sul trono toscano, si fosse rifugiato nella sua casa di via della Cappellina; ma continuando gli eccidi austriaci contro la sconfitta popolazione, tornò anch'egli sulla via e - come riporta Pietro Martini nel suo "Diario livornese" - passando davanti a una caserma ebbe a dire qualcosa a una sentinella austriaca, che evidentemente offesa lo bloccò sul posto.


Ebbene, il Diario del Martini non lo dice e non lo dice neppure Giovanni Targioni Tozzetti nell'ode "La città ribelle", ma stando a una preziosa ricerca degli studenti del Liceo Scientifico Enriques ("Motivi, motti e moccoli risorgimentali livornesi", Livorno 1960) pare che la scena si sia svolta così:


Il Bartelloni s'avvicina fischiettando alla sentinella e sorridendo chiede:


- Smammelloski?


- Eh?! - risponde sorpreso il militare, non comprendendo affatto.


- Puppa! - lo ghiaccia serio il Bartelloni, brancandosi le palle.


Il che, se all'indomito patriota labronico causò la fucilazione per immediato ordine del generale Costantino d'Aspre, ai posteri concittadini trasmise il nucleo di quello che poi, convenientemente adattato da semplice irridente battuta (quel "puppa!" rimasto pur esso nell'uso orale odierno a conclusione di domandine a tranello rivolte perlopiù ai pisani [arturo?]) a più sostanziosa espressione di varia insofferenza, è divenuto il proverbiale modo di dire con cui a Livorno si vuole in definitiva affermare, con indubbia modestia e inarrivabile urbanità, che chi ci vuol rompere troppo i coglioni può tutt'al più aspirare a farci un bel pompino.

Mario Cardinali
(dal Vernacoliere del marzo 2003)



1 commento:

  1. Il Borzacchini (nuovo dizionario di lingua volgare) dedica al lemma sei dotte pagine infarcite di citazioni.

    E il tutto ha ispirato l'immortale opera cinematografica "La leggenda del puppa", introvabile con Google perché il nostro ormai monopolizza la voce di ricerca.

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